Omelia della Messa di canonizzazione di Paolo VI

SANTA MESSA E CANONIZZAZIONE DEI BEATI:
PAOLO VI, OSCAR ROMERO, FRANCESCO SPINELLI, VINCENZO ROMANO,
MARIA CATERINA KASPER, NAZARIA IGNAZIA DI SANTA TERESA DI GESÙ, NUNZIO SULPRIZIO

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Piazza San Pietro
Domenica, 14 ottobre 2018

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La seconda Lettura ci ha detto che «la parola di Dio è viva, efficace e tagliente» (Eb 4,12). È proprio così: la Parola di Dio non è solo un insieme di verità o un edificante racconto spirituale, no, è Parola viva, che tocca la vita, che la trasforma. Lì Gesù in persona, Lui che è la Parola vivente di Dio, parla ai nostri cuori.

Il Vangelo, in particolare, ci invita all’incontro con il Signore, sull’esempio di quel «tale» che «gli corse incontro» (cfr Mc 10,17). Possiamo immedesimarci in quell’uomo, di cui il testo non dice il nome, quasi a suggerire che possa rappresentare ciascuno di noi. Egli domanda a Gesù come «avere in eredità la vita eterna» (v. 17). Chiede la vita per sempre, la vita in pienezza: chi di noi non la vorrebbe? Ma, notiamo, la chiede come un’eredità da avere, come un bene da ottenere, da conquistare con le sue forze. Infatti, per possedere questo bene ha osservato i comandamenti fin dall’infanzia e per raggiungere lo scopo è disposto a osservarne altri; per questo chiede: «Che cosa devo fare per avere?».

La risposta di Gesù lo spiazza. Il Signore fissa lo sguardo su di lui e lo ama (cfr v. 21). Gesù cambia prospettiva: dai precetti osservati per ottenere ricompense all’amore gratuito e totale. Quel tale parlava nei termini di domanda e offerta, Gesù gli propone una storia di amore. Gli chiede di passare dall’osservanza delle leggi al dono di sé, dal fare per sé all’essere con Lui. E gli fa una proposta di vita “tagliente”: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!» (v. 21). Anche a te Gesù dice: “vieni, seguimi!”. Vieni: non stare fermo, perché non basta non fare nulla di male per essere di Gesù. Seguimi: non andare dietro a Gesù solo quando ti va, ma cercalo ogni giorno; non accontentarti di osservare dei precetti, di fare un po’ di elemosina e dire qualche preghiera: trova in Lui il Dio che ti ama sempre, il senso della tua vita, la forza di donarti.

Ancora Gesù dice: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri». Il Signore non fa teorie su povertà e ricchezza, ma va diretto alla vita. Ti chiede di lasciare quello che appesantisce il cuore, di svuotarti di beni per fare posto a Lui, unico bene. Non si può seguire veramente Gesù quando si è zavorrati dalle cose. Perché, se il cuore è affollato di beni, non ci sarà spazio per il Signore, che diventerà una cosa tra le altre. Per questo la ricchezza è pericolosa e – dice Gesù – rende difficile persino salvarsi. Non perché Dio sia severo, no! Il problema è dalla nostra parte: il nostro troppo avere, il nostro troppo volere ci soffocano, ci soffocano il cuore e ci rendono incapaci di amare. Perciò San Paolo ricorda che «l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali» (1 Tm 6,10). Lo vediamo: dove si mettono al centro i soldi non c’è posto per Dio e non c’è posto neanche per l’uomo.

Gesù è radicale. Egli dà tutto e chiede tutto: dà un amore totale e chiede un cuore indiviso. Anche oggi si dà a noi come Pane vivo; possiamo dargli in cambio le briciole? A Lui, fattosi nostro servo fino ad andare in croce per noi, non possiamo rispondere solo con l’osservanza di qualche precetto. A Lui, che ci offre la vita eterna, non possiamo dare qualche ritaglio di tempo. Gesù non si accontenta di una “percentuale di amore”: non possiamo amarlo al venti, al cinquanta o al sessanta per cento. O tutto o niente.

Cari fratelli e sorelle, il nostro cuore è come una calamita: si lascia attirare dall’amore, ma può attaccarsi da una parte sola e deve scegliere: o amerà Dio o amerà la ricchezza del mondo (cfr Mt 6,24); o vivrà per amare o vivrà per sé (cfr Mc 8,35). Chiediamoci da che parte stiamo. Chiediamoci a che punto siamo nella nostra storia di amore con Dio. Ci accontentiamo di qualche precetto o seguiamo Gesù da innamorati, veramente disposti a lasciare qualcosa per Lui? Gesù interroga ciascuno di noi e tutti noi come Chiesa in cammino: siamo una Chiesa che soltanto predica buoni precetti o una Chiesa-sposa, che per il suo Signore si lancia nell’amore? Lo seguiamo davvero o ritorniamo sui passi del mondo, come quel tale? Insomma, ci basta Gesù o cerchiamo tante sicurezze del mondo? Chiediamo la grazia di saper lasciare per amore del Signore: lasciare ricchezze, lasciare nostalgie di ruoli e poteri, lasciare strutture non più adeguate all’annuncio del Vangelo, i pesi che frenano la missione, i lacci che ci legano al mondo. Senza un salto in avanti nell’amore la nostra vita e la nostra Chiesa si ammalano di «autocompiacimento egocentrico» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 95): si cerca la gioia in qualche piacere passeggero, ci si rinchiude nel chiacchiericcio sterile, ci si adagia nella monotonia di una vita cristiana senza slancio, dove un po’ di narcisismo copre la tristezza di rimanere incompiuti.

Fu così per quel tale, che – dice il Vangelo – «se ne andò rattristato» (v. 22). Si era ancorato ai precetti e ai suoi molti beni, non aveva dato il cuore. E, pur avendo incontrato Gesù e ricevuto il suo sguardo d’amore, se ne andò triste. La tristezza è la prova dell’amore incompiuto. È il segno di un cuore tiepido. Invece, un cuore alleggerito di beni, che libero ama il Signore, diffonde sempre la gioia, quella gioia di cui oggi c’è grande bisogno. Il santo Papa Paolo VI scrisse: «È nel cuore delle loro angosce che i nostri contemporanei hanno bisogno di conoscere la gioia, di sentire il suo canto» (Esort. ap. Gaudete in Domino, I). Gesù oggi ci invita a ritornare alle sorgenti della gioia, che sono l’incontro con Lui, la scelta coraggiosa di rischiare per seguirlo, il gusto di lasciare qualcosa per abbracciare la sua via. I santi hanno percorso questo cammino.

L’ha fatto Paolo VI, sull’esempio dell’Apostolo del quale assunse il nome. Come lui ha speso la vita per il Vangelo di Cristo, valicando nuovi confini e facendosi suo testimone nell’annuncio e nel dialogo, profeta di una Chiesa estroversa che guarda ai lontani e si prende cura dei poveri. Paolo VI, anche nella fatica e in mezzo alle incomprensioni, ha testimoniato in modo appassionato la bellezza e la gioia di seguire Gesù totalmente. Oggi ci esorta ancora, insieme al Concilio di cui è stato il sapiente timoniere, a vivere la nostra comune vocazione: la vocazione universale alla santità. Non alle mezze misure, ma alla santità. È bello che insieme a lui e agli altri santi e sante odierni ci sia Mons. Romero, che ha lasciato le sicurezze del mondo, persino la propria incolumità, per dare la vita secondo il Vangelo, vicino ai poveri e alla sua gente, col cuore calamitato da Gesù e dai fratelli. Lo stesso possiamo dire di Francesco Spinelli, di Vincenzo Romano, di Maria Caterina Kasper, di Nazaria Ignazia di Santa Teresa di Gesù e anche del nostro ragazzo abruzzese-napoletano, Nunzio Sulprizio: il santo giovane, coraggioso, umile che ha saputo incontrare Gesù nella sofferenza, nel silenzio e nell’offerta di sé stesso. Tutti questi santi, in diversi contesti, hanno tradotto con la vita la Parola di oggi, senza tiepidezza, senza calcoli, con l’ardore di rischiare e di lasciare. Fratelli e sorelle, il Signore ci aiuti a imitare i loro esempi.

Diciotto anni a «Fare del bene»

AVVENIRE – Quinto Cappelli mercoledì 18 luglio 2018

La Cooperativa sociale “Fare del Bene”, con sede a Galeata di Forlì, è diventata maggiorenne. È nata infatti nel 2000 da una felice intuizione e per volontà di don Carlo Zaccaro, un prete dell’Opera della Divina Provvidenza Madonnina del Grappa di Firenze. Opera che a sua volta fu fondata da don Giulio Facibeni, sacerdote romagnolo di Galeata, molto amato a Firenze, di cui è in corso la causa di beatificazione.

SEGUE

E’ morto Mario Bertini

Ieri pomeriggio 3 giugno è morto Mario Bertini.

Lo ho conosciuto a Villa Guicciardini nei tanti incontri che don Carlo organizzava per noi studenti e per tutti i figli dell’Opera.

Sono stato con lui e con don Carlo in Albania nel 1992 con un pulmino per portare aiuti alle suore di madre Teresa. Da quel viaggio nacque l’avventura albanese della Madonnina del Grappa che coinvolgerà tanti amici italiani e albanesi intorno al carisma di don Facibeni e alla speranza feconda di don Carlo.

Ho trovato sempre in lui un fratello e un amico sincero e generoso che voleva tenere vivi i rapporti tra i figli dell’Opera di ogni età.

Quest’inverno siamo andati insieme in Romagna per una iniziativa della Misericordia di Forlì “Don Carlo Zaccaro” e durante il viaggio ho avuto occasione di conoscere meglio la sua storia di figlio dell’Opera.

Originario dell’isola d’Elba rimase orfano da bambino e la nonna, che non era in condizione di provvedere a lui, venuta a sapere dell’Opera di don Facibeni lo portò a Firenze.

Lui e la nonna arrivarono a Piombino con una barca a remi remando un po’ per uno. Teneva a precisare che nonostante fosse piccolo sapeva remare bene.

Da Piombino a Firenze a piedi, poi fu destinato alla casa di Calenzano in anni molto difficili.

Il passaggio dalla libertà selvaggia della sua terra di origine alla disciplina severa della casa di Calenzano non fu facile e fece di tutto per venire via. Ci fu anche una fuga a piedi più o meno scalzo fino a Firenze dove di notte nella zona di Santa Croce una donna poverissima che aveva incontrato e che gli aveva lasciato il suo indirizzo lo accolse, gli preparò un riso al burro  e lo fece riposare. La fuga però durò poco perchè dopo un paio di giorni fu riportato nella casa di Calenzano.

Le cose andarono meglio dopo l’incontro con don Nesi che fu per lui un punto di riferimento saldo e paterno,  gli insegnò un mestiere e lo aiutò a trovare un lavoro alla TETI.

Dopo la morte di don Facibeni scrisse un articolo sul Focolare dove raccontava che nel suo lavoro di manutentore di telefoni trovava il santino del Padre infilato nei telefoni neri di bachelite. Lo trovava nelle case dei poveri e nelle case dei ricchi e nell’articolo tracciava quasi uno spaccato sociologico della devozione del popolo fiorentino per il Padre.

Quando don Carlo lesse l’articolo lo incoraggiò a continuare a scrivere e a collaborare alla redazione del Focolare.

Il resto della sua “carriera di scrittore” lo conosciamo: dai libri sulla sua Madre Teresa al suo lavoro di narratore dei preti fiorentini legati alla Madonnina del Grappa, come viene definito da Riccardo Bigi in un articolo su Toscana Oggi.

Ciao Mario, grazie per la tua amicizia e la tua testimonianza.

Un abbraccio alla moglie e ai familiari.

Il funerale si svolgerà mercoledì 6 giugno a Firenze nella parrocchia di San Leone Magno alle ore 10.

Roberto Funghi

È morto Michele Gesualdi

In Romagna con don Carlo
Al funerale di don Milani

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/morto-michele-gesualdi

Firenze. È morto Michele Gesualdi

No, su don Milani ‘non si sdottora’. Si può essere solo testimoni e figli del priore del ‘nulla’ di Barbiana che apriva gli occhi al mondo con alfabeto e Vangelo. Michele Gesualdi, che si è spento ieri pomeriggio a 75 anni nella sua casa, posta ai piedi di San Donato a Calenzano, altro luogo decisivo nella vita e nella geografia di don Milani, è stato testimone vero di don Lorenzo.

Fratello di Francuccio, collaboratore di Avvenire, ha continuato a rincorrere l’icona del ‘santo scolaro’ che figura nella chiesa di Sant’Andrea a Barbiana. I suoi occhi erano quelli del figlio e dell’allievo che don Lorenzo aveva voluto accanto a sé negli ultimi momenti di vita.

«Michele Gesualdi – ha dichiarato il cardinale di Firenze Giuseppe Betori – è stato uno dei testimoni più diretti di don Milani e tutti gli siamo grati per come fedelmente ne ha mantenuto la memoria. Egli ci ha testimoniato anche come gli insegnamenti di don Lorenzo lo abbiano condotto a sviluppare il senso della dedizione per gli altri e l’impegno al servizio della società. Il vescovo e tutta la Chiesa fiorentina lo affidano al Signore nella preghiera e sono vicini con la preghiera alla famiglia e a tutti gli altri allievi di don Milani che piangono la sua scomparsa».

Tra i primi messaggi di cordoglio, quello del sindaco di Firenze Dario Nardella: «Ne ho sempre ammirato la grande rettitudine, lo spessore politico e culturale e il profondo senso delle istituzioni. Come ultimo gesto ha lasciato al Paese un grande contributo di civiltà sul fine vita con la sua testimonianza personale». Matteo Renzi, che ne aveva preso il testimone alla guida della Provincia di Firenze, ha ricordato «con affetto e commozione l’esuberanza e la passione». La Presidentessa della Camera Laura Boldrini ha sottolineato «il servizio reso alla collettività fino agli ultimi giorni».

La Sla che lo aveva colpito alcuni anni fa è avanzata in modo inesorabile. Manifestò i primi sintomi mentre presentava una mostra di quadri del priore, inciampando talvolta nelle parole e lui disse: «Ho avuto tanto. Quel che mi pesa è che la malattia è cominciata proprio da qui – e indicava la gola – capisci? Noi che grazie a don Lorenzo s’ha il culto della parola». Ma la parola si può scrivere e Gesualdi mandava e riceveva messaggi e lettere e, soprattutto aveva voluto portare a termine Don Lorenzo Milani. L’esilio di Barbiana, con la prefazione di Andrea Riccardi e la postfazione di don Luigi Ciotti. Michele non aveva ‘sdottorato’, ma aveva composto un mosaico, attraverso fatti raccontati in parte come parabole, che costituisce un profilo credibile del priore.

La malattia lo aveva portato a prendere posizione sui temi del fine vita e delle cure palliative con una lettera a cui aveva lavorato a lungo. Se il dibattito sul fine vita e sulla legge del biotestamento si è rasserenato lo si deve anche al suo intervento che, ci teneva a sottolinearlo, non era un invito all’eutanasia quanto piuttosto al rispetto contro l’invasività che la moglie Carla, al suo fianco da quando erano ragazzini a Barbiana, i suoi figli Sandra e gli altri, hanno garantito. Il funerale sarà celebrato sabato a Barbiana. Da oggi la sua salma sarà esposta alla Madonnina del Grappa, in via delle Panche.

Andrea Trebeschi

Le idee valgono
per quello che costano,
non per quello che rendono
(P. Giulio Bevilacqua)

Mercoledì 24 gennaio 2018 alle 18,15
nella chiesa di S. Faustino a Brescia

ricorderemo che, con milioni di deportati,
nelle ceneri di Gusen G. Andrea Trebeschi
ha pagato anche per noi l’ultimo prezzo del
suo programma e del suo destino:

ama il tuo Dio ed il tuo prossimo

un prossimo di ebrei, cristiani – cattolici,
ortodossi, protestanti – politici, migranti,
testimoni di Geova, omosessuali, malati
psichici, asociali, rom e sinti, disoccupati,
ma anche delinquenti comuni, aguzzini e
carnefici.

QUALE MEMORIA

L’Associazione Costruttori di P@ce

presenta

QUALE MEMORIA

Cortometraggio sul tema della Shoah

Regia di Eugenio di Fraia e Gianni Lacerenza

25 GENNAIO ore 18

Caffè Letterario Le Murate

Introduce Emmanuel Dairo presidente dell'associazione.
A seguire riflessioni e domande
Sarà presente il regista Eugenio di Fraia.


Bassetti: intervento a Spes Contra Spem 4 a Palermo

da   www.fondazionelapira.org/it/content/bassetti-intervento-spes-contra-spem-4-palermo

IV Convegno Nazionale Giorgio La Pira

Spes contra spem

Palermo 13-14 Ottobre 2017

Giorgio La Pira e la Città

di Em. Card. Gualtiero Bassetti

Cari amiche e cari amici,

vi ringrazio di cuore dell’invito che mi dà modo di conoscere le associazioni e i gruppi che nel territorio nazionale sono impegnate, attraverso molteplici attività, a “far fruttare” l’eredità lapiriana. In questi ultimi anni, e ancora più in questi mesi, ho riflettuto spesso sulle vicende fiorentine del tempo di La Pira che possono essere comprese, in un certo qual modo,  attraverso il binomio indissolubile del  pane e la grazia.

Dai suoi scritti ho individuato quattro “passaggi” attraverso i quali, mi pare, La Pira abbia tradotto nel governo della città di Firenze, il binomio del pane e della grazia. Li elenco perché – una volta poste due piccole premesse – costituiranno l’ossatura del mio discorso: la concretezza, la bellezza, la cultura e l’unità.

La prima premessa riguarda il fatto che La Pira sia stato uno “sperimentale”. Firenze, non fu una “vetrina” per le sue azioni internazionali, ma il laboratorio dove sperimentare alcuni “principi operativi”: quelli fondamentali della Costituzione repubblicana, quelli economici che si trovano in L’attesa della povera gente  e, infine, i principi della sua inedita e in fieri civiltà cristiana.

La seconda premessa è questa: La Pira, nella sua azione politica e amministrativa ha saputo e voluto interpretare alcune aspirazioni profonde della città. L’azione politica seguì, infatti, un apprendistato lento, durato più di venti anni, che gli permise di entrare in profondità nel tessuto sociale, culturale, popolare della città; mi riferisco al tempo del suo impegno in una miriadi di gruppi dell’associazionismo cattolico, nelle Conferenze di San Vincenzo, l’appuntamento settimanale della Messa di san Procolo, l’insegnamento universitario, e poi la partecipazione attiva alla rete di aiuto e protezione agli ebrei perseguitati e, da ultimo, alla presidenza – dalla fine del 1944 – dell’Ente Comunale di Assistenza. Una lenta gestazione dell’impegno politico, che permise al futuro Sindaco di Firenze di arrivare, come direbbe papa Francesco, “là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi” e di raggiungere “con la Parola di Gesù i nuclei più profondi e l’anima della città” (cfr. Evangelii Gaudium, 74).

La Pira, quindi, non fu un ideologo nel senso deteriore del temine. Egli aveva dei principi forti, delle idee, anche delle intuizioni, ma non le caricò sulla città a prescindere dal suo tessuto concreto: la sua proposta per Firenze interpellò, infatti, una cultura profonda della città. Quando, per fare un esempio, La Pira decise di dare la cittadinanza onoraria a don Giulio Facibeni, non fece altro che dare rilievo civico e politico al fatto che i fiorentini, credenti e non credenti, avevano già riconosciuto come dimensione autentica della vita della città quella particolare esperienza di carità cristiana vissuta.

Ovviamente a Firenze non c’era solo la Madonnina del Grappa, e la cultura della carità cristiana non era unica né prevalente. Infatti, la grandezza del La Pira politico sta nell’essere riuscito a dare valenza politica alle culture solidali, aldilà delle divisioni ideologiche, che pure erano feroci. Questo gli diede la forza, genuinamente politica, per requisire le case e per occupare le fabbriche. Altrimenti questa forza non l’avrebbe avuta.

Ecco che il primo passaggio della proposta politica con cui La Pira intese tradurre il binomio indissolubile del pane e della grazia è già introdotto: la concretezza. Il 5 luglio 1951, nel discorso programmatico, durante un animato consiglio comunale, il neo Sindaco di Firenze “fondava” il primo punto del suo programma amministrativo nella “pagina più bella ed umana del Vangelo: risolvere i bisogni più urgenti degli umili”[1]. Allo stesso tempo, affermava che per ottemperare a questo obiettivo non si sarebbe limitato a fare tutto ciò che le risorse a disposizione gli avrebbero consentito, ma avrebbe proporzionato le risorse ai bisogni. Proporzionare i beni ai bisogni significò oltre che mobilitare importanti risorse pubbliche, coinvolgere l’intera città. La concretezza di La Pira si espresse – come sapete bene – su tutti i campi del sociale: dalle medicine al latte, distribuito quotidianamente nelle scuole per integrare la dieta, in molti casi inadeguata, dei bambini di Firenze; dalle case requisite, alla costruzione dell’Isolotto; dalla lotta contro i licenziamenti di massa, alla nazionalizzazione del Pignone e della Galileo.

Oltre a ciò, durante la prima amministrazione La Pira, fu anche rifatta la pavimentazione del centro, furono costruiti i ponti distrutti dalla guerra, riorganizzato il trasporto pubblico, elaborato il piano urbanistico. Insomma, quando, nel 1965, la stagione lapiriana venne forzosamente chiusa, nessuno avrebbe potuto accusare La Pira di non aver realizzato concretamente il programma del 1951. Anzi, le realizzazioni lapiriane hanno qualcosa dell’incredibile già al 1954. Proprio in virtù di questa concretezza, rifiuto di applicare a La Pira la categoria del “sognatore”. Se tutti i sognatori fossero come La Pira, oggi le nostre città avrebbero ben altri strumenti per aggredire le povertà che, oggi, sono tornate ad essere, drammaticamente, delle vere emergenze sociali.

In quel programma, tuttavia, c’era un ulteriore obiettivo che ci racconta qualcosa del secondo “passaggio” necessario per rendere politicamente operativo il binomio del pane e della grazia: ovvero la bellezza. 

Firenze rappresenta nel mondo qualcosa di unico. Ora, qual è il bisogno fondamentale del nostro tempo, dopo quelli che vi ho accennato? Dare allo spirito dell’uomo quiete, poesia, bellezza! Tutti quelli che, da qualunque parte del mondo, vengono a Firenze trovano qui la quiete: la trovano nell’aria, nelle linee architettoniche degli edifici, nei volti degli uomini. Firenze ha nel mondo il grande compito di integrare con i suoi valori contemplativi l’attuale grande civiltà meccanica e dinamica. I nostri grandi scrittori, poeti, artisti hanno assegnato a Firenze questo compito nel mondo e noi faremo il possibile per far diventare la nostra città sempre più il centro dei valori universali[2]

Anche se non ne può prescindere, la politica non si può fermare al pane. L’uomo, infatti, ha sete di bellezza: è capace di contemplare la natura ed è, egli stesso, immagine e somiglianza di Dio, artefice di bellezza. La bellezza dice che il valore dell’esistenza umana trascende la pura materialità. Il significato profondo della persona umana, infatti, va ben oltre ciò che si può mangiare e ciò che si può “monetizzare”. Il materialismo, secondo La Pira, negando la sete di bellezza nega il valore dell’esistenza e della dignità umana. Attenzione però, La Pira denuncia due materialismi: il materialismo ateo delle ideologie comuniste che comprimono la libertà e impongono un sistema oppressivo ed estremamente precario e quindi destinato a non durare; il materialismo pratico delle ideologie liberiste che reprimono la sete di bellezza costringendo alla angosciosa lotta quotidiana per la sopravvivenza o creando falsi bisogni consumistici.

Contro questi due materialismi, la bellezza della città sarebbe rimasta muta, non avrebbe potuto costituire un centro di attrazione per le nazioni e di diffusione dei valori universali, se Firenze non fosse stata anche la città del pane per tutti. L’autentica bellezza di una città è cioè da intendersi come sinergia della bellezza, della gratuità e della trascendenza con un tessuto sociale, produttivo e politico in grado di garantire una vita degna della sete di bellezza che è racchiusa in ogni creatura.

Tuttavia la bellezza non si inventa dal nulla, ma la si riceve. Ed eccoci al terzo passaggio con cui La Pira agì per realizzare la civiltà del pane e della grazia: quello della cultura. Nel 1954 il Sindaco di Firenze fu invitato a Ginevra, presso il Comitato della Croce Rossa Internazionale, a tenere una relazione sulla difesa delle popolazioni civili delle città in caso di bombardamento atomico. In quella sede, il Sindaco sostenne che gli Stati non hanno diritto di distruggere le città perché esse non appartengono alle generazioni presenti, ma a quelle future[3]. Occorre infatti garantire la continuità storica delle città per consegnare, accresciuto e arricchito, “un patrimonio essenziale, per l’elevazione spirituale e materiale dell’uomo[4]. La cultura, per La Pira è essenzialmente ricezione creativa della tradizione (artistica, tecnica, politica, religiosa…): questa tradizione è depositata nelle città, distruggerne una vuol dire rubare alle giovani e alle venture generazioni la possibilità di acquisire conoscenze essenziali relative all’arte del fare bene le cose e a quella di conoscere il mistero della vita. Non siamo, infatti, angeli e la trasmissione della cultura, dei saperi, ha bisogno di strutture. La città è esattamente questa articolazione di strutture che servono a trasmettere la cultura che in esse si sedimenta e si accresce.

Tuttavia – e vengo al quarto passaggio quello dell’unità – una città da sola, non basta, anche se si chiama Firenze, perfino se si chiama Roma o Gerusalemme. É evidente, infatti, che se la città è articolazione di strutture per la trasmissione creativa della cultura umana, la città non si può mai dare come monade, come microcosmo isolato. I monumenti stessi, le architetture, testimoniano che la cultura si forma e si sedimenta attraverso la scambio,  l’interculturalità. Tutte le città, quindi, piccole e grandi, costituiscono una sola articolazione di strutture che permettono la trasmissione e la crescita delle culture, ciascuna con la sua specificità e quindi ciascuna essenziale, irripetibile irrinunciabile.

Ma allora le città hanno una capacità di unirsi che gli stati non possiedono. Anzi, esse hanno il dovere di organizzarsi per vedere rispettato il loro diritto di non essere distrutte. Possono e devono agire su scala internazionale in forza del loro diritto all’esistenza. Esiste, cioè, una sorta di jus ad pacem che le città detengono e che devono esercitare. Di qui la convocazione, a Firenze, nel 1955, del convegno dei Sindaci delle capitali del mondo. Il protagonismo delle città negli scenari internazionali avrebbe potuto e dovuto costituire un elemento fondante del nuovo sistema internazionale reso necessario dall’impossibilità della guerra nucleare e dal superamento della funzione tradizionale degli stati all’interno di un sistema economico interdipendente.

Quindi, concretezza, bellezza, cultura e unità come passaggi attraverso i quali costruire la civiltà del pane e della grazia, la civiltà della liberazione e della solidarietà.

Cari amici questa è una visione di concretezza che per La Pira aveva un orizzonte preciso, entro il quale è necessario inquadrare il suo discorso sulla città, se lo si vuole comprendere nella sua completezza; ma oserei dire, per un credente, se lo si vuol comprendere nella sua perenne e al tempo stesso urgente attualità.

L’orizzonte è quello del capitolo 21 dell’Apocalisse: la Città Santa che discende dal cielo. L’eternità, il nostro comune destino, è una Città: è un fatto sociale!

Visioni fantastiche? No: modello soprannaturale, celeste, ma reale, della città terrena; dell’unica città terrena della pace che siamo tutti chiamati a costruire per consegnare un mondo nuovo di giustizia, di fraternità, di grazia, di unità, di pace, di bellezza, alle generazioni venture![5]

Ebbene, care amiche e cari amici, gli anni in cui La Pira scriveva queste parole erano anni di grande speranza: gli anni di papa Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II, del miracolo economico in Italia e della ricerca di un nuovo equilibrio di pace nel mondo. Una breve stagione, si potrebbe dire, interrotta drammaticamente nel sangue con la terribile guerra del Vietnam. Ma anche la Speranza e la beatitudine della fame e sete di giustizia come virtù politiche sono finite in quella stagione?

Sappiamo che per La Pira, la speranza non finì, ma lo accompagnò nella sua lotta anche nei lunghi anni, dal 1965 alla morte, della sua emarginazione. Speranze da visionario, si diceva. Nel 1973, quando alla primavera era seguito l’inverno, Giorgio La Pira ebbe a pronunciare – a Dakar, in occasione del Convegno della Federazione delle città unite – queste parole:

Inverno storico e primavera storica. Le due immagini sono state usate sin dal marzo 1958 da Pio XII e poi riprese e sviluppate da Giovanni XXIII e da Paolo VI, oltre che da altre grandi guide spirituali, culturali e politiche del mondo.

Inverno storico! Ma cosa significa politicamente militarmente, culturalmente, economicamente, ecc., questo inverno storico, rapportato alla presente età atomica, spaziale, demografica e sociale?

La risposta è espressa in maniera tanto significativa dal grosso titolo di un libro recentissimo di René Dumont Utopia o morte!

Queste parole ci interrogano ancora oggi e soprattutto ci scuotono l’anima. Credo che noi, uomini e donne del terzo millennio, dobbiamo risvegliarci da un certo torpore in cui siamo sprofondati negli ultimi decenni. Anni in cui ci siamo voluti illudere che assieme al tramonto delle ideologie fossero finite anche le “emergenze storiche”. Ma non è così.

Oggi noi viviamo in un grande “cambiamento d’epoca”, un eccezionale mutamento storico che ci obbliga a stare svegli, a guardare lontano e ad assumere una prospettiva globale, pur restando ben ancorati alla nostra storia, alle nostre tradizioni e ai nostri luoghi. Da questo punto di vista, la visione profetica di La Pira è di fondamentale importanza: per la Chiesa e l’Italia.

«Nulla può esser capito di Giorgio La Pira – come disse il Cardinal Benelli nel giorno delle esequie – se non è collocato sul piano della fede». La sua vocazione politica, infatti, è il frutto maturo della fede e rappresenta il fulcro vitale della sua «vocazione sociale». L’impegno politico per La Pira è dunque «un impegno di umanità e santità» che deve «poter convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità». La carità e la politica si fondono, in La Pira, in un legame inscindibile.

E lo stesso legame tra carità e politica è al centro della predicazione di Papa Francesco. Nella Evangelii Gaudium il Papa ha scritto chiaramente che “la politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle forme più preziose di carità, perché cerca il bene comune”. E recentemente a Cesena il Papa ha ribadito con forza che la politica non può essere asservita “alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi” ma deve avere come unico grande obiettivo “il bene comune” dell’intera società, senza lasciarsi tentare dalla corruzione e senza lasciare ai margini della società i piccoli e i poveri.

Solo con una politica che abbia veramente a cuore la dignità della persona umana e che utilizzi il “bene comune” come unico criterio di scelta, si possono trovare delle soluzioni responsabili e realiste alle grandi sfide del mondo moderno: ai temi dello sviluppo, del disarmo, della mobilità umana, della bioetica, della convivenza di culture e religioni diverse, degli equilibri ecologici.

Carissimi amici, non sarà il realismo dei materialisti a consegnare un “mondo migliore” alle generazioni future; non sarà certo il “realismo” di chi crede che tutto abbia un prezzo e che l’uomo vive solo di ciò che riesce a vendere e comprare; e non sarà, infine, il realismo dei fondamentalisti che, negando la bellezza di Dio, operano la più radicale ed atea negazione di Dio.

L’unico realismo che apre le prospettive alle generazioni future è quello del Vangelo delle Beatitudini e di chi non si stanca di avere un inesauribile fame e sete di giustizia!

[1]Giorgio La Pira Sindaco, I, (a cura di U. De Siervo – G. Giovannoni – G. Giovannoni), Cultura Nuova Editrice, Firenze 1988, 18.

[2] Idem, 33

[3] Discorso al comitato della Croce Rossa, 1954 Idem, 381-386.

[4] Discorso di apertura del Convegno dei Sindaci delle Capitali del Mondo, 1955, in La Pira Sindaco, II, 104

[5]Giorgio La Pira, Costruire la città della pace, in Giorgio La Pira, Le città non vogliono morire, Edizioni Polistampa, Firenze 2015, 139-140.

8 giugno presentazione del libro La Pira e i giovani

 
 
 Associazione Amici di don Carlo Zaccaro
 Associazione Internazionale Fioretta Mazzei
Giovedì 8 giugno, alle ore 17.30
presso la Sala Chiostrini del Convento di San Marco
via della Dogana, 3r – Firenze
 
sarà presentato il libro

La Pira e i giovani
Rondini in volo verso la primavera di Papa Francesco

libro scritto da Carlo Parenti per la Società Editrice Fiorentina
con la prefazione del Card. Gualtiero Bassetti.
 
Oltre all’autore interverrà
 
Mario Primicerio
Presidente della Fondazione Giorgio La Pira

Un invito a tutti a partecipare

Il libro nasce dall’incontro e dalla frequentazione di Parenti con La Pira
a partire dal 1971 quando, cioè, era un suo allievo di Diritto Romano: “Proprio da quelle lezioni – spiega Parenti – delle quali si serviva per interpretare la storia e per parlarci del futuro, ho iniziato a conoscere
La Pira. Da qui è nata un’amicizia che è durata fino ai suoi ultimissimi anni di vita, quando lo accompagnavo sulle colline di Firenze per ammirare la città”.

16 maggio Cerimonia d’intitolazione di Via Ettore Bernabei

16 maggio 2017

ore 11:00

Largo Alcide De Gasperi – FIRENZE
Cerimonia d’intitolazione di Via Ettore Bernabei

(ANSA) – FIRENZE, 11 APR – Sarà dedicata a Ettore Bernabei la strada sotto la sede Rai di Firenze, oggi parte di largo Alcide De Gasperi. Lo ha stabilito oggi la giunta comunale di Firenze dando l’ok alla delibera presentata dall’assessore alla toponomastica Andrea Vannucci che parla di “un altro modo per testimoniare la riconoscenza e l’affetto di Firenze per un grande uomo della storia italiana”, e “tributare il giusto omaggio al suo legame con Firenze, alle sue idee lungimiranti per la televisione e la politica”.
https://www.ansa.it/toscana/notizie/2017/04/11/firenze-intitola-via-a-ettore-bernabei_adabd98b-0640-4909-af9c-68b4f0196a20.html